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Critiques

Bizzarria
Tiziana Todi

La mostra mi è piaciuta da morire perché è costruita sui pensieri delle donne. Le sedioline come la stessa artista le definisce, sono il posto dove noi donne ci sediamo quando abbiamo un pensiero, il luogo dove ci fermiamo per ragionare sugli accadimenti. E’ una mostra che va dal metafisico al surreale, perché ha una tendenza che ci riconduce un po’ a Magritte, alla sua visione surreale ma nello stesso tempo è metafisica perché “è sospesa” così come erano le opere di De Chirico.

Le sculture sono realizzate tutte in bronzo: dal bianco, al dorato, al brunito. La particolarità sono “le sedioline” che sono fatte singolarmente, una per una, senza l’utilizzo delle gomme realizzate per le fusioni in cera. Per cui sono differenti l’una dall’altra: su ogni scultura troverete pensieri differenti, come succede nella realtà quando ci sediamo e pensiamo!
Susanna De Angelis Gardel è alla sua prima mostra personale in Italia, perché è un’artista romana, naturalizzata in Svizzera, per cui non una Europea, con le complicazioni del caso, se così vogliamo dire.

L’artista mi è stata presentata, quando ho visto le sue opere sul catalogo di Skira “Karékla, una sedia per l’anima”, ho subito accettato perchè è un’artista elegante, è sinuosa nel rappresentare le sue donne e, soprattutto, è un’artista che ti fa riflettere, il suo non è un bronzo freddo, cosa che spesso accade nella scultura. Nelle quattro tavole a parete, sono rappresentati quattro racconti del quotidiano pensiero, dal momento del thè, alla porta che si apre e si chiude, non è solo scultura, intesa come tale, è uno spaccato di vita, sui pensieri.
“Pensieri Trash” è stata realizzata per la mostra organizzata in collaborazione con Officine Vittoria “It’s Time” all’Aranciera di San Sisto nella scultura sono evidenziati materiali di uso quotidiano: c’è il cartone, la lattina, il pluriball, tutto quello che può rappresentare il trash, i pensieri negativi in assoluto, inquinanti che ci creiamo da sole.

Susanna De Angelis – La dimensione meditativa del volto
Andrea B. Del Guercio

Alle spalle di questo volume, corredato da una serie di elaborazioni grafiche, si pongono due anni di lavoro condotto da Susanna De Angelis nella realizzazione di un ciclo di ventidue sculture in bronzo. Oggi che l’itinerario espressivo risulta completato, mi pongo con grande interesse di fronte a una stabilità iconografica e in rapporto alle sue diverse variabili. Lo sguardo a cui fa seguito l’analisi critica è portato infatti dapprima a seguire la successione dei volti, le soluzioni collegate e le autonomie, l’articolazione tra le diverse scelte espressive, per poi andare a soffermarsi sulla singola scultura, su quei particolari che ne fanno un’opera unica.

 

Si è trattato di un processo creativo, fino ad allora del tutto inedito per Susanna De Angelis, nato da una volontà espressiva che ha saputo risolvere tutte le difficoltà e le problematiche di una tecnica antica qual è l’arte del bronzo; si può facilmente immaginare quanto complesso e a tratti arduo sia stato il processo di apprendimento, date tutte le insidie di una cultura profondamente legata ai tempi dell’esperienza, ma è anche percepibile quanto l’artista abbia saputo scoprire e approfondire, pronta a utilizzare le numerose varianti di questo lavoro, ancora largamente contrassegnato da una grande manualità.

Esattamente come è stato per gli anni dedicati alla pittura, l’approccio alla scultura nasce da un’esigenza personale di comunicazione visiva, diventando un’esperienza totalizzante: “La sua tridimensionalità mi ha affascinato dal primo approccio e la sua ‘forza’ è diventata all’istante la mia. Il piacere di toccare la materia e sentire nelle mie mani il potere di plasmarla, mi dava una sensazione straordinaria”.

A questo impegno Susanna De Angelis ha dedicato interamente le sue energie, sempre più attratta dai processi di redazione, con l’obiettivo di conoscere tutti i passaggi che collegano l’immagine del pensiero alla dimensione plastica dell’opera; ogni scultura si dimostra pienamente rispondente a un percorso creativo in cui anche il condizionamento di alcuni passaggi tecnici appare non solo affrontato e risolto, ma anche utilizzato per arricchire di spessore la propria volontà espressiva e raggiungere il migliore risultato.

Khloe è tra le sculture più luminose grazie all’uso di una patinatura che si distribuisce, articolandosi, tra bagliori improvvisi e superfici in ombra. Si tratta di una scelta tecnica che si sviluppa e si afferma pienamente come risultato di un processo di riduzione dei dati anatomici, favorendo l’estensione delle superfici nel volto e lungo lo sviluppo del collo, ma anche nel movimento prezioso della treccia. Appare esemplare questo frammento aggiunto che, pur nella sua ridotta dimensione e lateralità, si dimostra fondamentale anche sul piano di quella ricerca della bellezza propria dell’esperienza del pensiero. La scelta di una materia luminosa, molto vicina alla doratura, si apprezza pienamente nelle fasi di percezione; il movimento rotatorio della visione intorno al volume permette, infatti, di scoprire la vitalità della scultura, con il suo estendersi ed espandersi nello sviluppo “floreale” delle piccole sedie in uscita e ramificate oltre la plasticità dell’opera.

Attraverso il volume si è in grado di cogliere pienamente l’unità di sistema che racchiude l’intero ciclo di sculture realizzato da Susanna De Angelis; si avverte come esso si sia sviluppato e articolato tra mirati ed evidenti punti stabili, quali il volto e la sedia, la testa e il piano di appoggio, il volume geometrico e la sinuosità avvolgente del tubolare, rinnovando sistematicamente le soluzioni iconografiche. Ho partecipato con grande interesse al racconto di ciò che sono stati in questi anni i processi di lavorazione che hanno portato all’attuale risultato, sicuramente di grande valore estetico. In questa recente fase ho potuto affrontare, nel loro articolato insieme, tutte le opere, perfettamente definite con le soluzioni di appoggio in pietra e in marmo e installate nella dimensione rigorosa dello studio di Lugano.

Ho trovato interessante questo procedere che si racchiude nel valore di una raccolta di opere diverse, che pure si legano tra di loro, tra rimandi e sviluppi, tra soluzioni che si inseguono rafforzando il messaggio. Ed è in questa fase che si inserisce l’idea di realizzare di un volume monografico. L’edizione ha di fatto l’importante funzione di documentare fotograficamente la singola scultura, ma anche di accompagnare, nella sua interezza, la lettura visiva della complessa storia artistica di Susanna De Angelis. Attraverso questo libro le cogliamo come perfettamente rispondenti alla volontà creativa da cui sono nate.

Eirene è tra le opere in cui si confrontano più elementi iconografico-formali, dando vita a un vero racconto, a una comunicazione che, pur evitando la descrizione, orienta la percezione verso la personalità del ritratto; l’eleganza prende il sopravvento grazie alla presenza minimale della lastra, caratterizzata da una patinatura leggermente più chiara e mossa nelle sue calde variazioni. Se le sedie-pensiero sono, rispetto alla maggioranza delle sculture, trattenuti dal copricapo, con la volontà di essere ricondotti al tempo intimo della riflessione, la treccia risulta invece scalettata dalle accensioni dorate, induce e sottolinea la forza dell’immagine, attribuendole uno scatto di personalità.

L’artista non sceglie la scultura come affermazione e certezza del reale, ma individua un processo di osservazione concentrato sul suo stilema, sulla riduzione dei valori formali, per raggiungere l’essenza significativa del soggetto; si tratta di un processo ‘in togliere’ che ha contrassegnato le forme espressive dell’arte moderna, coinvolgendo trasversalmente gli autori che ne hanno fatto parte, pur provenendo da sistemi creativi diversi. Susanna De Angelis riparte da quel patrimonio che risponde, da Picasso a Brancusi, dall’espressionismo al cubismo, per poi essere approfondito dalle seconde avanguardie, a una volontà artistica fondata sul processo di work in regress. Questa indicazione di metodo, suggerita da Claudio Costa negli anni settanta e tuttora determinante nel panorama della stagione attuale, spartiacque nei processi di giudizio estetico, punta a recuperare le origini collettive della storia quale elemento di affermazione del presente.

Anche nella scultura di Susanna De Angelis vige l’orientamento all’astrazione, alla rarefazione degli eccessi e dei dettagli, per cogliere l’essenza simbolica della realtà.

Daphne è tra le opere con maggior volontà auto-affermativa, contrassegnata dalla dimensione di massima luminosità; a tutto uno sviluppo proiettato in verticalità tra base-collo e testa-volto, già di per sé in grande evidenza policroma grazie alle rifrazioni e al rispecchiamento, corrisponde l’estensione sui due lati orizzontali di altre due “pagine” di luce, ulteriormente confermate e poste, con nuovi bagliori, alle estremità della scultura. Tutta la comunicazione suggerisce un’idea di estensione della bellezza, di cui anche la sedia-pensiero appare partecipe; un’esperienza estetica attraversata da quella del piacere che si svela e si offre aprendo un varco a quel silenzio trattenuto che brevi accenni del volto appena indicano alla percezione.

Con evidente centralità la testa umana risulta il tema iconografico intorno al quale Susanna De Angelis ha costantemente lavorato, con soluzioni in cui la volumetria assume un ruolo preminente sull’intero ciclo, senza comunque escludere di soffermarsi sulla dimensione della superficie piana, così come avviene per Artemis. In questo processo di auto-rinnovamento dell’immagine apportano un grande contributo le soluzioni estetiche frutto delle diverse patinature, dai bronzi più scuri a quelli più chiari, fino a rasentare la preziosità dell’oro, alla massima luminosità di una lucidatura a specchio. Ogni opera assume caratteristiche iconografiche e cromatiche indipendenti, dimostrando la capacità e la volontà dell’artista di saper costantemente rinnovare il racconto visivo con grande partecipazione emozionale.

Osservando la successione delle sculture, sia mediante la fruizione diretta che attraverso la documentazione fotografica, non possiamo non riconoscere una mirata relazione con l’idea originale della ritrattistica scultorea dell’antichità classica, di quella volontà dell’arte di concentrare nel ritratto l’esperienza del ricordo, di mantenere in vita la storia biografica di un essere umano.

Susanna De Angelis non ha avuto timore di aprire un confronto con l’eredità iconografica testimoniata dalle collezioni di busti romani e dei suoi sviluppi ancora tra Rinascimento e neo-classicismo, sapendo collegarsi in maniera mirata alla stagione moderna delle Avanguardie Storiche, dalla pittura e la scultura al disegno; l’artista si inserisce in questo straordinario percorso, composto di tasselli innovativi, con grande autonomia, grazie a un rafforzamento dell’esperienza sperimentale, appropriandosi del giusto contributo di forme di sottolineatura aggiuntive che vanno dalla sedia al gallo, dalla trave al copricapo.

Un percorso lungo il quale Susanna De Angelis ha costantemente trovato il giusto equilibrio tra ironia e severità nella ricerca della bellezza, senza perdere una intensità espressiva.

Kalliopi fa parte di un nucleo di sculture severe in cui l’estensione della sedia-pensiero appare più forte, sicuramente impegnativa nella relazione con i valori propri della testa. La patinatura particolarmente scura distribuita sul volto è indicativa di quel clima espressivo di grande concentrazione interiore sottolineato dalle due pagine laterali. Le sedie-pensieri, a loro volta, si rivelano in grande estensione e dimensione, imponendosi con forte maturazione plastica e diventando il soggetto primario dell’opera; il pensiero, il turbinio delle idee, l’affermazione della scrittura per la Musa della Poesia assumono una centralità straordinaria apportando calore-colore, dilatando fisicamente l’illuminazione.

Un secondo passaggio nel percorso creativo di Susanna De Angelis ci suggerisce di sottolineare l’attenzione al volto, quale ulteriore conferma della centralità della testa; si è trattato di un percorso che le ha permesso di entrare in rapporto ma anche di abbandonare i dettami storici della ritrattistica, attraverso quel processo di ricerca di astrazione, di riduzione dei dati anatomici, di indipendenza dalla personalizzazione del volto.

Rispondendo all’esperienza contemporanea del work in regress, il soggetto riconquista l’essenza universale delle fattezze umane, raggiungendo la dimensione simbolica dell’umanità, allontanando il confronto tra le razze ed estendendo il concetto di auto-riconoscibilità. Pochi tratti, del tutto essenziali, in formale e lineare continuità tra l’orizzontalità e la verticalità del segno solo leggermente ed elegantemente aggettante, inducono a un profondo silenzio, a uno stato di concentrazione e di intima riflessione; azzerando le labbra, l’artista sembra voler rinunciare alla parola, alla trasmissione delle idee attraverso il suono, per fornire solo ed esclusivamente la forza comunicativa del pensiero.

Karékla è la scultura che, pur collegandosi strettamente al ciclo di opere, trova una sua indipen- Forni fusori nell’atto di liquefare il metallo / Metal liquefying in the melting furnaces denza strutturale e quindi un’estetica inedita. Sono diversi i dati e i valori che la contrassegnano, permettendole di inserire e di apportare un ulteriore contributo al racconto visivo, frutto della curiosità e della sperimentazione artistica di Susanna De Angelis. Un processo espressivo che punta a richiamare l’attenzione sulla valenza dell’opera, in questo caso contrassegnata dalla presenza simbolica del gallo, “della rinascita interiore, del risveglio”: perfetto risultato di un procedimento analitico che “disegna” la scultura, Karékla fornisce l’affermazione indipendente all’iconografia della sedia quale metafora del pensiero; la sedia-pensiero ha in questo caso ottenuto dall’artista il peso e la dimensione per una completa affermazione, interagendo con carattere sull’habitat in cui si installa.

Il significato simbolico della sedia, fortemente presente in questo ciclo di opere di Susanna De Angelis, presenta un alto numero di variabili collegate ad ambiti diversi, che vanno dal sogno alle proiezioni in ambito sociale nelle relazioni con il potere, per poi riferirsi all’ampia sfera dell’esperienza culturale, filosofica e letteraria; valori che possono anche risultare in contraddizione tra loro, come gran parte del patrimonio iconografico, reso indipendente nella stagione moderna e contemporanea rispetto ai rigidi dettami delle culture antiche.

Mi sembra in ogni caso interessante inserire una breve riflessione sulla specificità iconografica della “sedia”, un oggetto connotato dal senso dello star fermo ma non del riposo, di una realtà funzionale al pensiero, al lavoro delle idee, alla concentrazione in posizione di sosta; si osservi in particolar modo come l’immagine della sedia vuota sia stata introdotta nella stagione moderna dell’arte, mentre nelle epoche antiche risultava sostanzialmente utilizzata sia nel contesto di un’iconografia religiosa che laica, in questo caso riferita in particolare alla ritrattistica. Esemplare appare in questo clima il riferimento alla condizione di riflessione, di prostrazione penitente indotta dal Caravaggio nella Maddalena del 1594.

Significativi sono la svolta e il rinnovamento nella definizione iconografica della “sedia vuota”, oggi al centro degli interessi di Susanna De Angelis, apportata da Vincent van Gogh con due quadri del 1888 indipendentemente riferiti a se stesso e all’amico Paul Gauguin.

Si avverte una trasformazione in senso concettuale dell’oggetto quotidiano, in grado di emblematizzare l’amicizia e specificare l’esperienza del dialogo serrato intercorso tra i due amici, ma anche il valore dell’assenza e dell’abbandono; un processo che riconosce alla sedia ormai vuota, per contaminazione dei due corpi, sia il ruolo di autoritratto che di ritratto: “Alcuni giorni prima della nostra separazione, ho cercato di dipingere il suo posto vuoto. È uno studio della sua poltrona di legno bruno-rossiccio, con il sedile in paglia verdastra, e – al posto dell’assente – una candela accesa e alcuni romanzi moderni”.

Il peso di questa mirata rivoluzione simbolica attraversa tutta la cultura moderna, come documenta una lunga serie di opere di diversi autori, per giungere nella stagione contemporanea alla soluzione concettuale per eccellenza, quella di Joseph Kosuth del 1965.

Si inserisce perfettamente all’interno di questo percorso l’idea plastico-simbolica di Susanna De Angelis, affrontata sul piano di una rigorosa riduzione formale, frutto di quel processo di astrazione già osservato nel volto umano.

L’obiettivo per l’artista non è più quello di descrivere, ma di porre in evidenza l’apporto essenziale dell’immagine iconografica, suggerire emozioni al fluire del nostro pensiero, fare in modo che appartenga a ogni uno di noi, che sia riconosciuta e vissuta collettivamente: “Ho raffigurato questi pensieri, che sono forme di energia, con delle piccole sedie che si rincorrono e si aggrovigliano creando strane forme dentro e fuori la nostra mente. A volte, noi vorremmo che questo meccanismo che ci imprigiona si allentasse e che i nostri pensieri si acquietassero, si ‘sedessero’, lasciando spazio a un sentimento di pace. La sedia è l’oggetto che maggiormente evoca il senso del fermarsi, del riposare, dello stare”.

La rigorosa documentazione fotografica, che accompagna nella monografia la nascita di ogni singola opera, punta a raccontare il lavoro come processo creativo, mostrando al lettore per immagini il senso del fare scultura; la mirata ed essenziale registrazione dedicata alle lunghe ore trascorse in fonderia, tra le diverse mansioni che tutte insieme conducono al risultato finale, si rivelano una importante forma di contributo alla conoscenza di quanto si nasconde e si pone alla base del lavoro dell’arte; un passaggio che aiuta il lettore di immagini a entrare in sintonia con i contenuti del messaggio espressivo dell’artista. Non si tratta di un processo meccanico e passivo, schematicamente compositivo, tecnicamente ripetitivo, ma di uno stare accanto alla nascita dell’opera sapendo di poter prendere possesso, anche da un semplice punto di saldatura come dalla definitiva scelta di una patina del bronzo, di una serie di preziose idee per la sua affermazione. Ogni particolare è frutto infatti di un perfetto equilibrio tra l’idea della forma e la soluzione tangibile, tra il pensiero simbolico e la contaminazione iconografica.

Lungo questo percorso fatto di tentativi e di scoperte, si colloca quella lunga e tormentata fase dedicata a uno dei “frammenti” più importanti nel lavoro di Susanna De Angelis: la presenza della sedia, tanto insistentemente presente come elemento caratterizzante di questo ciclo, ha infatti alle spalle tutti i tentativi per trovare la giusta dimensione, l’individuazione degli elementi che la definiscono e a cui fa seguito una successione aggregante; alla scelta dell’icona quale segno rappresentativo di un pensiero e della sua traduzione estetico-visiva ha fatto seguito un lungo percorso di analisi delle soluzioni, sia del singolo articolo che del racconto nato dall’accumulo.

Molto simile ai processi analitici della scienza, il lavoro dell’arte, così come è stato condotto da Susanna De Angelis in questi anni, ha richiesto prove e contro-prove, soluzioni che sembrano raggiunte per poi essere rimesse in discussione dando lungo a nuovi tentativi; nello scorrere dei mesi posso testimoniare in prima persona che dietro quella che oggi vediamo come un’opera definita, in realtà si trovano, attraverso trasformazioni e ripensamenti, un alto numero di varianti, spesso comunque interessanti, ma mai del tutto in grado di soddisfare l’estremo rigore che da sempre caratterizza il lavoro dell’artista.

Anthia e Aphia è il frutto di un incontro tra due sculture, tra la luce e il buio, tra la curva e l’angolo. Un evento raro nel ciclo di sculture appare questo passaggio compositivo fondato sull’incontro silenzioso di due volti, quasi non dialoganti se non attraverso lo sviluppo del pensiero, nell’incontro delle idee e delle emozioni che le piccole sedie rivelano. Nelle due distinte immagini, la patinatura oscura si confronta con l’estensione ampia della luce, cosicché nella prima tutto si conclude nella sostanza opaca mentre nella seconda la lucentezza allarga le relazioni con l’esterno, si dilata per ritornare al confronto e all’intreccio. Anche il piano di appoggio, accuratamente studiato ed elaborato, mosso da una leggera fisicità, sostiene e rafforza la ricerca dell’intersecazione gentile tra le emozioni, che la leggerezza del tratto psicologico dei volti suggerisce.

Appare importante ricordare anche in questa sede la stagione dedicata alla pittura, a cui Susanna De Angelis è approdata inaspettatamente nel 2006. Si è trattato di un periodo lungo e difficile, ma che le ha insegnato i tempi di una descrizione compositiva nata dalle relazioni con il documento fotografico, frutto di mirati reportage condotti sulle realtà del pianeta, dal mondo animale a quello umano degli umili. Un percorso che negli anni si è andato raffinando, accrescendo la dimensione tecnico-narrativa, per raggiungere un equilibrio tra incidenza e dissolvenza, tra la forza del dettaglio e l’inafferrabilità del senso profondo di uno sguardo e di un gesto: “I soggetti mi sono stati ispirati da persone incontrate per strada, come il vecchio guatemalteco o il mendicante indiano seduto per terra o la bambina dell’Honduras con la sua cesta, o ancora il piccolo cinese dello Yunnan che, mezzo nudo, mangia da solo seduto sul marciapiede. Queste persone hanno attirato la mia attenzione e mi hanno lasciato un segno”.

Quell’esperienza, lungamente affrontata con grande rigore e forte senso di responsabilità etica, è significativamente presente anche in questo ciclo di opere scultoree, confermando una cultura personale dell’arte. La stagione della pittura, vissuta con grande passione, come quella attuale della scultura, rivela come dietro alla definizione artistica di un’immagine, Susanna De Angelis abbia condotto un percorso di ricerca all’interno dell’intimità del pensiero visivo; appare cioè evidente quanto l’azione creativa si sia posta l’obiettivo di rispettare la dimensione del segreto di un volto, l’estensione emozionale di uno sguardo, ma anche di suggerire al fruitore di percorrere e riconoscere l’esperienza della profondità. Susanna De Angelis si è, con il suo lavoro, interessata alla profondità che sta dietro e all’interno della realtà; una realtà che è assunta senza strappo né denuncia, che viene affrontata dando inizio a un’avventura verso quella dimensione che l’artista non svela, che non intende interpretare né descrivere, ma solo suggerire.

Eudokia è una scultura in grado di mettere in evidenza come l’artista sia riuscita a trovare le variabili linguistiche di uno stesso tema, ottenendo costantemente un’elevata qualità. Sicuramente l’essere entrata in profondità nella dimensione volumetrica e l’aver acquisto una notevole conoscenza dei processi tecnici le hanno permesso di essere operativa con originalità tra le soluzioni che il bronzo, con le sue patinature, offre alla creatività. La bicromia tra luminosità e oscurità, le relazioni tra la verticalità e l’orizzontalità forniscono i dati per i quali Eudokia si rivela un’opera estremamente organica e, perciò, molto intensa alla fruizione.

Esiste anche un collegamento tematico tra la precedente stagione della pittura e questa dedicata alla scultura, dove in entrambi i cicli espressivi si avverte la centralità del volto quale fonte dell’espressione.

I caratteri che definiscono il volto, potremmo dire non solo umano, erano stati infatti alla base dell’esperienza pittorica, anche dedicata al mondo animale; lungo quei due distinti percorsi, spesso di grandi dimensioni, la fotografia era stata la “severa compagna” di una volontà documentativa, andata nel tempo, grazie alla presenza del colore e del segno, ad approfondire sempre di più la sfera dell’interiorità. L’obiettivo era quello di cercare quei contenuti che i passaggi di redazione forniscono in maniera del tutto simile a un processo di meditazione.

Lo sguardo, che sia di un elefante come di un anziano, vede il progressivo attenuarsi dei conflitti cromatici del reale, attraverso la distribuzione di una luce diffusa in grado di esplicitare lo spessore intimo del soggetto.

Se l’orientamento espressivo rimane sostanzialmente la ricerca della dimensione profonda e dell’interiorità, valori su cui si basa l’idea di realizzare l’ampio ciclo di sculture, avvertiamo per altro verso il chiaro distacco dal processo descrittivo. Si osserva come ogni scultura, determinata dalla costante presenza del volto femminile, sia il frutto di una volontà creativa tesa al superamento del dato di realtà. In rapporto alla costante centralità iconografica della testa, si pone e si interseca, con valore di estensione del pensiero, la presenza di un frammento geometrico riconducibile, per riduzione formale, alla figura della sedia, che a sua volta ricorre insistentemente nella maggioranza delle opere.

I due dati vengono affrontati senza volontà narrativa, cosicché il volto e la sedia arrivano a introdurci nell’ambito incontaminato dell’emozione interiore, con la volontà di perdere punti di appoggio abbandonando dati certi, inoltrando lo sguardo dentro i confini estesi di nuove geografie culturali.